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Salomè di Richard Strauss da ovazione al Comunale di Bologna. Grandissima regia di Lavia

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“Tanta roba”.

Espressione colorita di neolingua un poco giovanilista, che rende, però, il piacere, non più intellettualistico, di una grandissima messinscena. Fino a ieri, il godimento di Richard Strauss, prima di questa visione di Gabriele Lavia, era consapevolmente possibile solo per un target ristretto di fruitori.

La mente di Lavia è ispirata dal dramma di Wilde, scritto dal dandy per eccellenza in francese e poi fatto tradurre dallo Strauss tedesco nella sua lingua, non senza difficoltà di percorso. Un lavoro teatrale, questo, non solo per i sofisticati palati di qualche incallito dissonante, ma anche per i tanti giovani che domenica 17 febbraio, affollavano il Comunale di Bologna.






Un capolavoro d’arte vera, cioè per tutti.

Perché solo così dev’essere l’arte: e più arte è, più è per tutti. Il teatro (e l’Opera, sua suprema espressione) non abbisogna di perfezione formale su tutti i suoi piani, non deve produrre quel dérèglement des senses per vista udito odorato eccetera per tutto il tempo dell’intrattenimento: basta un drappeggio scarlatto, una geniale presenza di sfondo fatta di colori, luna e armati di lancia, basta una meravigliosa Ausrine Stundyte (Salomè), così umana carnale e provocante, vera donna nella sua danza da non-tersicorea, mezza iena e mezza gattina, così (donna) fragile e tremenda, basta la sua indemoniata danza dei sette veli, basta il perfetto arrendersi di un uomo che è messo in contraddizione e si gode la sua tragica contraddizione (Erode, Ian Storey), basta una moglie e madre (Erodiade, Doris Soffel) che resiste e resiste, rendendosi perfettamente intelligibile, fino a lasciarsi a sua volta vincere dall’identità muliebre con la figlia assatanata, basta il gigante Jochanaan (Tuomas Pursio) tra le cui labbra (giganti) la donna innamorata (e rifiutata per amor di Dio) s’accuccia, avendolo finalmente, mentre il corpo decapitato pende come nei tarocchi, basta l’ossessione della femme fatale che come in una bella mostra (“DONNE. Corpo e immagine tra simbolo e rivoluzione” alla Galleria d’Arte Moderna di Roma, dal 24 gennaio al 13 ottobre 2019), si presenta così: “Lilith, Eva, Salomè, Circe, Giuditta, Medea, Cleopatra, Armida sono solo alcuni degli archetipi che nell’immaginario trovano una nuova incarnazione nella figura destabilizzante della donna fatale in cui, ambiguamente, l’aspirazione alla libertà e all’emancipazione convive con l’idea della donna spregiudicata e distruttiva.

La femme fatale, nata dalla fantasia maschile, temuta e desiderata e protagonista di opere letterarie, artistiche, teatrali e cinematografiche, prende le sembianze della donna tentatrice e della donna vampiro, che si nutre dell’energia vitale dell’uomo fino a consumarlo e distruggerlo(..)”, come accade a Erode in Salomè, basta la grandissima musica della danza dei sette veli, basta il meraviglioso dibattito dei 5 Giudei, basta una scenografia impeccabile, basta un ritmo perfetto, eccetera eccetera…

Tanta, tantissima roba. E dire che, per fare un semplice successo, bastano solo un paio degli elementi che ho elencato. Tanta roba.

Tutti sanno che non parlo bene per principio e poi, a dirla tutta, seppur sempre con rispetto, non adoro Lavia. Per non perdere l’abitudine alla critica, mi piace di più quando non si dirige in scena, come stavolta (per fortuna non canta…).

Ma, accidenti, qui è un gigante: si sente non l’accozzaglia di grandi artisti, che spesso rendono grandi le rappresentazioni anche in assenza di intelligenza registica dell’opera: nella Salomè, di uno Strauss addirittura nobilitato dalla regia laviana, il cast tutto si muove su ispirazione del grandissimo Gabriele, che dona unità pregevole a tutta la vasta gamma di specialità dell’opera lirica, come in un grandioso piatto di Carȇme.

E sono entusiasta di essermi sentito a teatro come i convitati al Congresso di Vienna che si spartivano l’Europa, magnificati dalla fruizione di un cibo (opera del genio ineguagliato dell’alta cucina, Carȇme) che mai più si sarebbe mangiato nella storia… Chi era il cuoco della Conferenza di Yalta, a proposito? Beh, qui il cuoco è stato un grandissimo Gabriele Lavia. Chapeau!

Bisogna avvertire Katia Fanciullacci, del bellissimo e ottimo Ristorante Donatello a due passi e mille foto dal Comunale, che lo faccia ubriacare molto, il buon Lavia, la prossima volta. Perché, se continua così, diventa troppo bravo per tutti.

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