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Cui Prodest

Michele Pertusi fa, come “Attila”, terra bruciata e conquista il Festival al Verdi più di successo della storia

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Fuori dagli schemi e dalle congiure, questo Attila merita un plauso.

Opera tradizionale, regista saggiamente equilibrato, tra il Pizzi, grande innovatore con giudizio, e le scenografie più spinte di altri.

De Rosa, già ammirato in molte regie, ha colpito a suo tempo il segno anche nella struggente e poetica interpretazione di un altro caposaldo verdiano, il Simon Boccanegra.

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Lo vidi alla Fenice, ove risuonavano ancora le eco di una furibonda campagna elettorale, e quanti come me vedevano in quell’opera, a cavallo tra la politica e la passione, le dispute più o meno ridicole interne a un partito di amministrazione che non sapeva che pesci pigliare, tra un suo candidato sincero e problematico, il giudice Casson, e il timore di un avvento della destra, poi avvenuto, con il sindaco oggi in carica, Brugnaro…

Insomma, De Rosa allora si sentì coinvolto, ne sono sicuro, e con tecnica spongimorfa, buttò dentro lo sfondo un mare romanticissimo, in continuo moto ondoso, a togliere le certezze, ma anche a ricordare le belle atmosfere.

Qui fa lo stesso.

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È romantico e profondo, ha in carico l’eredità delle grandi menti registiche, e si vede: una linea arriva a lui, che passa da Zeffirelli, attraversa Pizzi e ha sullo sfondo le innovative esperienze registiche come anche quella di Bob Wilson, che lo ha preceduto in Le Trouvere.

Mentre l’inglese è anche colui che ha completato un ciclo triennale di sperimentazione, come ricordato dalla deus-ex-machina della Fondazione Regio, Anna Maria Meo, di De Rosa vedremo di sicuro molte cose ancora.

Una regia da frutta di stagione, onesta e buona, rispettosa dello spirito dell’opera, non radicale nelle innovazioni e attenta, come si deve nel rispetto della grande arte, al suo senso profondo.

Una grande asse poi, ed è anche bene, con il nuovo adepto delle corti verdiane Michele Pertusi, acclamato nuovo Cavaliere di Verdi: si tratta di una carica onorifica di alto significato morale e cittadino, ma anche un riconoscimento denso di senso musicale perché a sostenere l’attribuzione sono i celebri 27, 27 persone scelte, a rappresentare ciascuna una delle altrettante opere di Verdi. Uno di loro, infrangendo il segreto, mi aveva parlato nell’orecchio, dicendomi il nome di Pertusi.

Che è parmigiano, amatissimo dal loggione del Regio, ed è un basso bravissimo.

E così è in Attila. Odabella gli fa ampia cornice, con note estese e perfetta padronanza: ma è la Siri, comunque sempre una grande presenza.

Gelmetti si prodiga da par suo e ottiene evidenti risultati, alla guida della Filarmonica Toscanini e di concerto con l’ottimo coro del Teatro Regio.

Che dire allora, in chiusura del Festival Verdi 2018?

Attendendo per celebrare qualcosa (ma io lo so, si tratta di un altro successo, e non solo commerciale) la comunicazione tra qualche settimana dei dati ufficiali, abbiamo visto:

  1. Migliorare significativamente il Verdi Off, che però rimane ancora sotto-comunicato e impreciso sul piano della targetizzazione commerciale (prodotto/mercato);

  2. Aumentare la padronanza da parte delle strutture e del management della Fondazione di un evento artistico complessivo, sempre più creativo e coraggioso;

  3. Garantire sempre di più la qualità dei singoli spettacoli;

  4. Cancellare, definitivamente forse, l’impressione di Teatro di provincia che il Regio aveva fino a 4 anni fa, dopo una lunga crisi;

  5. Realizzare un rischio, gradevole alla fine, in tutto questo ben di dio, con Wilson visionario e oltre;

  6. Realizzare tre centri perfetti, con Macbeth, Un giorno di Regno e Attila.

Aspettiamo pure i dati, ma possiamo già dire: bravi anche quest’anno, Meo e tutta la sua squadra.

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