Le nostre storie
Caducità…. viaggio particolare attraverso persone e luoghi che avevano voglia di raccontarsi
Parte da Bolzano questo breve racconto, che non era previsto. Nasce spontaneo nella sua semplicità, poiché sono sempre gli eventi inaspettati che squarciano la mia scorza dura e mi invitano a tirare fuori le emozioni.
Il nostro pullman è diverso dal solito, non è dell’azienda che utilizziamo da anni ormai. Mi informo, e scopro che questo era l’unico disponibile a darci due autisti, che il prezzo era più vantaggioso (visto che nessuno ci dà un euro, per fare politica) e che molte ditte di trasporto locali hanno le flotte bloccate, per questioni tecniche legate al Covid19.
Noi siamo 21, su un totale di 50 posti. Seduti, ognuno con un sedile accanto libero. Quello che un tempo sarebbe stato un mezzo pieno, oggi ci sbatte in faccia la realtà dell’assenza, della lontananza fisica anche tra noi, che siamo come fratelli e sorelle.
Entro salutando i due conducenti e vengo accolta con un sorrisone dal più anziano: “Siete il primo viaggio che facciamo dopo tre mesi, sono quasi emozionato”.
Io contraccambio il sorriso e rispondo “allora oggi sarà una bella giornata per tutti!”.
“Siamo stati fermi negli ultimi 3 mesi – prosegue – . Nessuno vuole viaggiare, le persone hanno paura, lo capisco. Ma noi autisti lavoriamo con il turismo, se nessuno viaggia, noi siamo bloccati”.
La prima scheggia che mi colpisce è questa, due persone sconosciute che gioiscono per scofanarsi 24 ore di trasferta, con il sorriso di chi ha voglia di lavorare, di macinare chilometri, di tenersi stretto il lavoro che gli dà da mangiare. Il dinamismo contro la staticità.
Scendiamo al primo autogrill vicino a Mantova. Caratteristico odore di concime, pungente ed acre. Parcheggio vuoto, solo qualche bilico, ed un paio di motociclisti. Entriamo, abbiamo tutti la mascherina (tricolore ovviamente) ci disinfettiamo le mani, ci disponiamo ordinatamente in fila per ordinare.
La signora alla cassa è visibilmente in stato di agitazione. Continua a spostarsi la mascherina su e giù, litiga con gli elastici dietro alle orecchie, suda, si muove come se il suo corpo volesse essere altrove. Stessa cosa la ragazza al bancone.
“Per favore, uno qui e uno lì” ci dice con tono al limite dell’isteria.
“Signora (parlando con me) se lei prende l’ordinazione deve trovare un posto non stare qui al bancone, non si può stazionare al bancone eh!. Se viene un controllo ci andiamo di mezzo noi dipendenti” aggiunge alla fine, come a giustificare tutta quella solerzia.
Io la guardo, e vorrei risponderle “stai calma zio can, non ho ancora ordinato, dammi il tempo di capire dove mettermi”, ma stranamente sto zitta. Non voglio aggiungere altri tranquillanti a quelli che già prende probabilmente, tutte le sere quando torna a casa.
Poi mi accorgo che dice meccanicamente la stessa frase a tutti, come un disco rotto.
Noi ci muoviamo in questo autogrill come se fossimo in un negozio a Murano. Come dei Ninja cerchiamo di mimetizzarci tra le patatine ed i pacchi di cioccolata in offerta. Ci vorrebbero dei tentacoli per mangiare e bere senza appoggiarsi da qualche parte!
Esco in fretta, mi manca l’aria. La seconda scheggia si infilza prepotente accanto alla prima. Le due donne, involontariamente, mi hanno trasmesso l’ansia. Mi hanno fatto sudare, ancora più dei 28 gradi esterni.
Ho sentito il loro stress, la fatica di dover ripetere sempre le stesse cose, sicuramente trovando anche persone maleducate, con cui dover discutere. Le ho immaginate tornare a casa, sfinite, con le lacrime agli occhi.
Dopo una giornata chiuse dentro una prigione, dove ogni cliente che entra può essere il famoso asintomatico, senza mascherina perchè l’ha dimenticata, ma vuole lo stesso ordinare, che ti starnutisce addosso, che si pulisce il moccio con la mano e poi tocca tutte le caramelle prima di scegliere quale vuole.
Quel cliente con cui devi essere gentile a forza, ma da dentro lo mandi a fanculo, perché non vuoi perdere il lavoro.
Perché c’hai famiglia, il mutuo, le bollette. Perché devi vivere, nonostante l’ignoranza della gente.
Il viaggio prosegue, mi metto le cuffie, e parte Johnny Cash, “The Man comes around”. Chiudo gli occhi sperando di dormire.
“E ho sentito, per così dire, il rumore del tuono.
Una delle quattro bestie che dice: ‘Vieni a vedere.’
E ho visto, ed ecco un cavallo bianco.
C’è un uomo che va in giro a prendere nomi.
E decide chi liberare e chi incolpare.
Non tutti saranno trattati allo stesso modo”.
Mi sveglio e siamo nei pressi di Arezzo, c’è l’ultima sosta prima di arrivare a destinazione. Questo è un grande autogrill, di quelli “a ponte” che servono entrambe le corsie. Però è chiuso, ci sono dei container, perché stanno facendo ristrutturazione. In effetti molti hanno approfittato del blocco totale, per costruire, rinnovare, gettare il superfluo.
Un modo per rendere utile un tempo fondamentalmente inutile, per tutti, soprattutto per le aziende. Qui troviamo altre due donne dietro al bancone, ma tutt’altra storia.
“Buongiorno! Ma quanti siete? Siete un Pullman?”
Poi si gira verso la collega e dice “esco un attimo, devo fare una foto, siete il primo Pullman di turisti, dopo mesi. Ogni tanto il Flixbus ma davvero pochi, da contare sulle dita di una mano!”
Torna dopo un paio di minuti “scusate eh! Ma qui è stata una tristezza, c’abbiamo voglia di vedere gente. Stare qui senza clienti… du palle!” Ci sentiamo molto Vip. “Very important person”.
La terza scheggia arriva puntuale. Tocca un punto profondo, tra l’orgoglio e la ribellione. Penso che lo siamo davvero, delle “persone veramente importanti”. Stiamo andando a portare un messaggio, a chi ci vuole in ginocchio, a chi ci ha svenduto, a chi ci sta togliendo sorrisi e dignità.
Siamo importanti, perché non ci arrendiamo e lottiamo anche per voi 6 sconosciuti, brave persone, che state facendo un pezzo di strada con noi.
Arriviamo a Roma, e la prima cosa che mi colpisce è il silenzio. Ci vengo dal 1996 a Roma, l’ho vista mutare negli anni, ma mai svuotata. Mai così deserta. Niente code chilometriche, niente clacson che impazzano per strada, niente turisti con la bandierina segnaletica, niente ristoranti e bar pieni, niente mezzi affollati.
In compenso un tripudio di monopattini, che sfrecciano ovunque, spuntando come funghi. Se non fosse una tragedia per l’economia, direi che Roma oggi, è eccezionale da visitare.
Ma Caput Mundi, così, non è se stessa. È un animale ferito che giace sui sui colli antichi e stanchi. Non splende, nonostante sia sempre bellissima, non brilla nonostante resti la città più bella del mondo, per arte ed architettura.
Vorrei cullarti Roma, stringerti al petto come fa una mamma per rassicurare il suo bambino. Vorrei accarezzarti per dirti di stare tranquilla, che negli anni sei sopravvissuta a tutto e tutti, che ci sono uomini e donne che ti proteggeranno sempre.
Caducità… è ciò che ho pensato camminando tra le tue strade vuote. Anche qualcosa di imponente e maestoso, toltagli la sua linfa vitale, può diventare, improvvisamente fragile.
Raggiunta la piazza, un tripudio di tricolori e persone, mi ridonano un po’ di felicità. Il sole cocente scalda una piazza già ardente di passione.
Ritrovo vecchi amici ed amiche, l’energia fluisce, rivedersi è sempre un toccasana per corpo e mente. Dal balcone di piazza Bocca della Verità, si alternano uomini e donne, in rappresentanza di tutte le categorie più colpite dalla pandemia.
Ci sono le “partite iva” che raccontano il dramma delle attività che stanno morendo, le mamme che vogliono una scuola seria e non un esperimento sociale sulla pelle dei propri figli, pensionati che si vedono tagliare anno dopo anno la miseria che già percepiscono, i cassaintegrati come me, che non vedono un euro da marzo, i consiglieri comunali che vedono i soldi da investire per malati e disabili trasformati in stupidi monopattini pagati, con i soldi dei cittadini.
C’è la voglia di riprendersi tutto, di vivere in una Nazione sovrana, e non di sopravvivere in una carcassa moribonda in mano a 4 pagliacci, che tutto fanno, tranne che l’interesse del popolo italiano.
La manifestazione finisce intonando l’inno nazionale, ed è inutile sottolineare quello che esso rappresenta. Superfluo precisare che l’inno di Mameli lo si deve sentire dentro, devi essere tu stesso quell’insieme di parole e strofe che raccontano la nostra Storia, e chiunque non incarni questa italianità, questo spirito tramandato dai nostri avi, deve cantare altro, tutto quello che vuole, ma non Mameli.
Ed alla fine, mentre aspetto la macchina per caricare le bandiere, la ciliegina sulla torta. Sono appoggiata ad un muretto, fa caldo, sono un po’ stanca, emetto uno sbuffo e dico ad alta voce “uhhhhhh che caldo”.
Di fianco a me, un poliziotto vestito in abiti civili mi sorride. “Avete beccato una bella giornata sole. Oggi poi è particolarmente caldo. 30 gradi”.
Io annuisco “sì, li sento tutti, poi arrivo da Bolzano, ieri c’erano 16 gradi. Però fa lo stesso, è andato tutto bene, siamo stati bravi, ora andiamo a rinfrescarci”.
L’uomo mi guarda e si fa serio “voi siete sempre bravi, lo dico sinceramente. Non abbiamo mai problemi con voi” e mi strizza l’occhio con simpatia.
“Grazie, io lo considero un vanto, un motivo di orgoglio, il sapersi comportare”.
Ci salutiamo cortesemente augurandoci buon proseguimento di giornata e la quarta scheggia squarcia lo strato che mi protegge dalla cattiveria della gente.
Perché quando si sentono tante bugie, tante brutte parole, tante offese gratuite, da persone ignoranti che non sanno nemmeno di cosa stanno parlando, un complimento sincero da chi invece conosce la realtà della cose, è come una cometa di Halley. Illumina il cielo, ti lascia a bocca aperta, ti toglie le parole. Un evento che accade raramente, è qualcosa di bello, da ricordare e raccontare.
La giornata scorre velocemente, tra luci ed ombre, tra silenzi e musica, in via Napoleone III. La Torre, già offesa dalla rimozione della sua imponente scritta in marmo, resta sempre e comunque un palazzo storico meraviglioso.
Quello che molti politicanti e pennivendoli additano come un palazzo occupato illegalmente, è in realtà un luogo dove delle famiglie italiane in difficoltà, un tempo, hanno trovato casa. Dove stanno crescendo i loro figli, in una sistemazione pulita e dignitosa.
Quelle famiglie residenti, che l’amministrazione romana a 5 Stelle vuole sbattere fuori dal palazzo, il Sindaco Raggi le mai conosciute? Ha mai parlato con loro? Ha mai sentito la loro storia? O vanno attaccati a prescindere, solo perché a sinistra va attaccato qualsiasi cosa o persona, che ha a cuore la sorte degli italiani? La festa a cui ho partecipato è un messaggio chiaro per tutti i detrattori: “Dove noi vogliamo, mentre voi strillate”.
Giunge l’ora di cena, Manu (ndr) ed io, cerchiamo un posto dove sederci e mangiare qualcosa. Sono le 21, quindi non è tardi, eppure molti bar e ristoranti nei paraggi hanno già le saracinesche abbassate. Incredibile, penso. L’Esquilino è un quartiere in centro, in un sabato di giugno “normale” ci sarebbe una folla di turisti pronti per sedersi a tavola.
Giriamo l’angolo in fondo alla strada e troviamo un bar/ristorante/pasticceria aperto. Ma sembra stia chiudendo, quindi chiediamo se è ancora possibile ordinare qualcosa.
“Certo signore, accomodatevi, fuori abbiamo i tavolini, ve porto io tutto”.
Ordiniamo quello che ci ispira, andiamo in bagno e quando usciamo troviamo già il tavolino pronto.
“Siete di Cpi?” ci chiede la titolare, una signora sulla sessantina.
“Sì, e siamo stanche ed affamate” le rispondo.
“Bene, bene, loro sono nostri amici, siamo contenti per oggi, ci hanno fatto lavorare tanto!” e sorride.
Ha voglia di parlare, si vede perché si avvicina, appena finito di sistemare il tavolo accanto.
“Oggi ho chiamato un rinforzo, il signore al banco, perché sapevo che sareste arrivati, loro ci avvisano sempre, a noi commercianti. Soprattutto adesso che abbiamo dovuto ridurre il personale. Prima eravamo in 12 tra bar, pasticceria e ristorante, ora siamo rimasti in 5”.
“È un disastro signora, abbiamo visto la città deserta“ commenta Manu.
“Si figuri” incalza la signora “prima chiudevamo a mezzanotte, un via vai continuo di turisti, ora alle otto, le nove la sera, non c’è più nessuno. Lavoriamo un po’ con le colazioni ma non è vita questa. Ho dovuto lasciare a casa il personale, ho dovuto scegliere tra chi aveva famiglia, e chi no. Avevo dei giovani bravi, volenterosi, non è stato facile, dirgli che non potevamo tenerli”.
Alza gli occhi al cielo, come di solito si fa quando si vuole ricacciare indietro le lacrime. Poi deglutisce e riprende a mettere ordine tra i suoi tavolini vuoti.
C’è una tavolata dietro di noi, gente dei nostri, sento che la signora parla anche loro.
“Noi resistenti non siamo assolutamente d’accordo con lo sgombero! Non vi potete neanche immaginare come sarebbe qui se non ci fosse la vostra sede dietro l’angolo. Di sicuro si opporranno in tanti, quando sarà il momento, anche se fino ad ora non hanno detto nulla”.
Dopo un po’ la tavolata si alza e anche noi decidiamo di lasciare la nostra postazione. Salutiamo la signora augurandole di tenere duro, promettendo di tornare a mangiare le sue sfogliatelle deliziose.
“Tornate quando volete, siete sempre i benvenuti” ci dice.
Ci ritroviamo in una piazza vuota, di fronte ad una chiesa meravigliosa. La quinta scheggia trova spazio più in profondità, laddove tengo la parte nascosta di me. Quella che vorrebbe cambiare il mondo. Quella che mi fa sentire impotente, una sensazione che mi rattrista nuovamente.
Con Manu ci dirigiamo verso un pub, perché il pullman riparte alle 24 e sono le 22. Cerchiamo un altro tavolino, e qualche altra storia da poter raccontare.
Questo bar è diverso da quello precedente, più stile da serata, tra birre e cocktail. Un ragazzo sulla ventina, molto gentile, ci fa accomodare.
Io prendo una bottiglia d’acqua perché mi è venuta l’emicrania e Manu per fortuna ha con sé un’intera farmacia.
“Di dove siete? È bello avere qualche turista in questo periodo”.
“Bolzano” rispondo.
“Conosco Bolzano, ci vanno i miei per i mercatini. Anche da voi si vive di turismo immagino”.
“Sì, in prevalenza turisti austriaci e germanici, ma quest’anno la vedo dura, visto che con sto casino del Covid, agli occhi degli stranieri, siamo una manica di appestati ed incompetenti” rispondo stancamente.
“Noi siamo stati chiusi marzo e aprile, abbiamo riaperto il 25 maggio ma poca roba in giro. È circa una settimana che stiamo lavorando almeno fino a mezzanotte, prima chiudevamo alle 2. Era sempre pieno perché siamo famosi per i cocktail”.
“Hai preso la cassa integrazione?“ gli chiedo curiosa.
“Macché, non ho visto un centesimo. Per fortuna mi hanno dato una mano i miei genitori, altrimenti manco da magnà avevo”.
“Benvenuto nel club” gli rispondo sorridendo.
Lui si allontana, dopo essersi congedato, ci ringrazia per la chiacchierata. Deve sanificare il tavolino per i clienti successivi. Se ci saranno.
Ormai ho perso il conto delle schegge. Sento solo una stanchezza infinita. Come se avessi viaggiato attraverso le vite degli altri. A forza di immedesimarmi nella loro quotidianità, ho le spalle cariche di bollette da pagare, dipendenti da licenziare, notti insonni e rabbia repressa, da aggiungere a quelle che ho già di mio.
Ho addosso il peso della realtà che ho toccato con mano, l’animo ferito per l’impossibilità di lasciare loro, di più, di qualche parola di speranza.
Voglio tornare a casa, a scrivere quello che ho visto, quello che sentito con le mie orecchie. Devo raccontare la verità che tutti cercano di nascondere.
Finalmente ci ritroviamo a Termini, in attesa che arrivi il Pullman. La giornata si conclude, assistendo ad una rissa tra uno straniero ed un trans. La “donna” sembra non avere bisogno di aiuto, infatti dalla parole dell’uomo visibilmente alterato da chissà che droga, ella passa direttamente ai fatti, prendendolo a calci e borsettate.
Alla fine il degrado, non lo ferma neanche il Coronavirus. Ritorniamo a casa. Ognuno con i propri pensieri. Tutti stanchi ma felici, di aver fatto il nostro dovere. Abbiamo tutti avuto la stessa sensazione, in questa Roma surreale, che resterà nella nostra memoria.
Io già mi vedo a raccontare ai miei nipoti, che in un tempo molto lontano, un virus ci aveva messo in ginocchio, ci aveva fatto morire e soffrire per molto tempo. Ma poi ci siamo rialzati, abbiamo ripreso in mano le nostre vite, la nostra economia, la nostra libertà.
Ci siamo sganciati dal mostro che si chiamava Unione Europea, grazie al coraggio ed alla perseveranza di donne e uomini che in tutte le piazze di Italia, per mesi si sono dati appuntamento, per protestare contro il governo in carica.
Mi vedo raccontare di quando era tornata a circolare la Lira, la nostra moneta, usata dai loro nonni e bisnonni. Tutti avevano una casa, ed un lavoro regolare, con lo Stato al servizio dei cittadini e non viceversa. Nessuno metteva piede in Italia, da mare o da terra, senza poter garantire di avere un luogo dove vivere ed un posto di lavoro certo.
Le opere d’arte venivano regolarmente restaurate, le strade asfaltate, le scuole rinnovate. Le galere erano piene di politici e magistrati corrotti. I tribunali non erano più luogo di mafiosi e inciucioni…
Mi sveglio sorridendo, vedo le mie montagne… ho sognato l’Italia che vorrei raccontare e lasciare a chi verrà dopo di me.
Quindi, lunga vita ai sogni. Oggi, domani e sempre.
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