Arte e Cultura
Aleksander Solgenicyn: l’uomo che fece tremare il regime comunista
Ricorrono quest’anno il centenario della nascita e i dieci anni dalla morte di quello che è stato uno dei più influenti scrittori del secolo appena trascorso, premio Nobel per la letteratura nel 1970.
Ma chi è Aleksander Solgenicyn? E’ stato anzitutto l’ uomo che è riuscito, quasi da solo, a mani nude, a mettere in crisi il regime sovietico, il Partito onnipresente e pervasivo, che tutto controllava, tutto sapeva, tutto decideva.
Quest’uomo, che con la sua opera più celebre, “Arcipelago gulag”, ha fatto conoscere al mondo cosa veramente accadeva nell’Urss, mandando in frantumi gli inganni, la disinformazione messa in campo dai partiti comunisti occidentali, ben finanziati con l’oro di Mosca, nasce l’11 dicembre 1918, quando la guerra mondiale è appena terminata e i suoi effetti, in Russia, hanno contribuito a scatenare la rivoluzione bolscevica.
Quando questo figlio della Russia emette i suoi primi vagiti, la storia del mondo sta per cambiare: la civiltà e la religione precedenti hanno ormai “perso l’essere”, come nota il contemporaneo Aleksander Blok.
Vasilij Rozanov, pochi giorni prima della nascita di Solgenicyn, scrive: “Senza dubbio la ragione profonda di quanto sta accadendo risiede nel fatto che nell’umanità europea (tutta intera, quindi anche russa) si sono aperti dei vuoti abissali lasciati dal cristianesimo del tempo passato; in questo vuoto tutto sprofonda: troni, classi, ceti, lavoro, ricchezza. Tutti sono travolti. Tutto e tutti periranno. Ma tutto questo sprofonda nel vuoto di un’anima che è stata privata del contenuto antico”.
In verità la promessa fatta dall’ideologia e dai bolscevichi è sfolgorante: il vuoto sarà riempito da cieli nuovi e terra nuova. Nulla di meno.
Eppure le cose vanno diversamente, sin dal principio. Forse il giovane Solgenitsyn non si accorge, quasi, di nulla.
Dopo una qualche resistenza adolescenziale al regime, alle sue imposizioni, al suo manicheismo ed alla sua retorica, abbraccia con entusiasmo la rivoluzione e i suoi ideali. Intanto si iscrive, il 26 marzo 1938, all’Università di fisica e matematica di Rostov, benché il suo sogno, precocissimo, siano le lettere.
Uno dei professori, scampato miracolosamente alla rigida repressione degli scienziati che non seguono le direttive del partito, si chiama Dmitrij Morduchaj- Boltovskoj ed ha idee piuttosto eterodosse: crede in Dio, critica Marx, sostiene l’idea che Newton non fosse un materialista, come il regime insegnava, ma un credente come “tutti i più grandi scienziati”.
Ma né Solgenicyn né gli altri discepoli sospettano nulla sul loro professore, competente e geniale nella sua disciplina. Sono tutti arruolati nella ideologia dominante, benché Solgenicyn si lasci talora andare ad alcune riflessioni “religiose”, come questa: “Cosa c’è là dove la morte col suo respiro tocca il cuore mio? Là… oltre l’ultimo distacco? Cosa c’è là, dove non c’è niente?”.
Per il resto Solgenicyn divora gli autori sacri, da Marx a Lenin, con entusiasmo e passione. Nei suoi appunti la parola “dio” compare di rado, ma rigidamente minuscola, secondo le regole ortografiche sovietiche. Il mondo sembra non avere più segreti. Nei testi comunisti c’è già scritto tutto, e Solgenicyn si dimostra grato a Marx e Lenin di avergli risparmiato la fatica della ricerca. A 18 anni concepisce un progetto ambizioso: scrivere la storia della rivoluzione. E’, come riconoscerà più avanti, “un boia belle pronto”, arruolabile persino dalla Ceka, se l’occasione gli si offrisse.
Nel 1940 Solgenicyn si sposa: “allora, nota la Saraskina, era molto semplice, non c’era bisogno di pubblicazioni, di mesi di prova; andarono là e si registrarono senza neanche i testimoni”.
Intanto Solgenicyn si cimenta con successo negli studi matematici, ma la sua passione rimane scrivere: frequenta contemporaneamente anche l’università di lettere, sino alla chiamata alle armi. L’irruzione della guerra non lo spaventa più di tanto: si sente destinato a servire la Rivoluzione, il Bene, a contribuire alla diffusione del comunismo nel mondo. Una missione straordinaria lo attende!
LA RECLUSIONE – In guerra, però, il cittadino, universitario, con la testa piena di ideologia, fa i conti con un mondo nuovo: quello dei contadini, della gente comune, di coloro che dal comunismo non si aspettano più nulla, perché hanno già visto troppe iniquità. Il popolo, nota il futuro scrittore, con angoscia, non crede nel regime, in Lenin, nella guerra. Solgenicyn tocca con mano che esistono realtà diverse da quella libresca, in cui lui è cresciuto.
Che ci sono pensieri altri, addirittura contrari ai suoi. Sperimenta anche la fame, così che in un’occasione si ritrova tra i denti una frase, che non aveva più pronunciato da tanti anni: “dacci oggi il nostro pane quotidiano”.
Il 9 febbraio 1945, a tre mesi dalla fine della guerra, Solgenicyn finisce in galera: con alcuni amici ha osato criticare Stalin. E’ l’occasione per toccare finalmente con mano cosa sia lo stalinismo: viene torturato nel carcere della Lubjanka, la principale prigione politica dell’Unione Sovietica dove sperimenta la reclusione, il tentativo di piegare la sua volontà e la sua umanità.
Gli imporranno otto anni di reclusione e poi tre di confino. Vivrà il dramma di un tumore, la libertà, e poi altri sei anni come scrittore clandestino, prima dell’espulsione dal paese, nel febbraio 1974. Durante la permanenza nel gulag, Solgenicyn ascolta le riflessioni di alcuni compagni, su Dio, la Fede, i limiti della scienza: sente di non essere più l’ intellettuale leninista di un tempo.
Lì, in quelle condizioni estreme, si rivela ai suoi compagni quello che è nel profondo: un uomo di straordinaria energia, capace di grande umorismo, che sa far ridere i compagni a crepapelle, a forza di scherzi e battute, ma che ha anche una concezione della vita altissima e severa. Ora che il regime gli ha tolto tutto, scrive, gli è rimasta la libertà interiore, che nessuno potrà levargli.
Solgenicyn ascolta gli altri, il suo cuore, scrive in versi, per poter memorizzare ciò che ha creato e poi stracciare tutto. Soprattutto, la sua fede comunista vacilla sempre di più. Scrive: “E ora, con recuperata misura/ Attinta l’acqua della vita, /Dio dell’Universo! Io credo di nuovo!/ Anche quando ti rinnegavo Tu eri con me…”.
Cosa sarei diventato, si chiederà più avanti lo scrittore, senza questo arresto? Solgenicyn non ha dubbi. È la Provvidenza ad averlo portato nel Gulag, impedendogli di divenire, alla fine della guerra, uno dei tanti scrittori di regime, ossequiati, magari benestanti, e bugiardi; è il Gulag ad avergli impedito di dedicare la sua vita alla menzogna, ad aver fatto di lui uno scrittore appassionato alla Verità, invece che un “servo della menzogna” come tanti intellettuali.
Una volta guarito dal tumore, scrive: “Quando comprendi il senso della tua vita, non puoi non provare una sorta di mistico rispetto dinanzi al fatto che la vita ti è stata ridata per qualche motivo”. Il motivo gli è chiaro: scrivere quello che ha visto, quello che pensa, costi quello che costi. Solgenicyn è un po’ come il Frodo de “Il Signore degli anelli”: è solo sfiorato dall’idea della sua piccolezza, o meglio, la conosce bene, ma non crede che stia lì il punto. Quello che conta è il compito che ritiene gli sia stato affidato: sfidare il regime, raccontando tutto. Succeda poi quello che deve succedere…
ARCIPELAGO GULAG – a un avvenimento e l’altro, arriva finalmente l’epoca di Kruschev: è la destalinizzazione, il paese sente allentare la morsa. Solgenicyn, siamo nel 1956, vede finalmente la libertà e la cancellazione dei suoi precedenti penali. Ma non sta per iniziare una vita totalmente nuova. Non vuole, come tanti compagni, dimenticare, ricominciare come nulla fosse, quasi spaventato dalla sua stessa storia. Avviene così che nel 1962 pubblica la sua prima opera: “Una giornata di Ivan Denisovic”, un resoconto crudo, realistico, dettagliato, della vita nel gulag.
Il libro è un successo straordinario, migliaia di persone scrivono allo scrittore per ringraziarlo, perché vedono in quest’opera una breccia nel muro di menzogna, un segno della forza insita nella verità e nella giustizia. Un anno dopo quest’opera, al culmine della sua fama, anche all’estero, quando però la persecuzione in patria sta ricominciando, Solgenicyn scrive una celebre preghiera: “Quando il mio intelletto confuso si ritira o viene meno, quando gli uomini più intelligenti non vedono al di là di questa sera e non sanno che fare domani, Tu mi concedi la chiara certezza che esisti e ti preoccupi perché non vengano sbarrate tutte le vie che portano al bene”.
C’è qui tutta la forza e la fiducia che lo portano a sfidare, quasi da solo, il regime, che ha addolcito l’aspetto arcigno del suo volto, ma che rimane, nella sostanza, ancora mostruoso, oppressivo, disumano.
C’è già l’idea che porterà alla composizione di “Arcipelago Gulag”, il capolavoro nato dalla testimonianza di 257 internati, che gli varrà il premio Nobel, nel 1970, oltre ad alcuni attentati del KGB (un avvelenamento ed un incidente automobilistico, provvidenzialmente scampati). Il fatto incredibile è che il regime è costretto a temere un uomo solo, il suo coraggio, la sua determinazione. Il partito capisce che Solgenicyn è un simbolo, in patria e all’estero; che toccarlo è pericoloso. Il regime ha paura dell’aiuto che parte dell’Occidente offre a Solgenicyn. La pubblicazione di “Arcipelago Gulag”, costringe il governo all’arresto e all’espulsione dello scrittore.
IN OCCIDENTE – Inizia così il suo vagare, prima in Europa, poi in America, sempre col sogno di ritornare nel suo amatissimo paese. In Occidente Solgenicyn potrebbe atteggiarsi ad eroe; potrebbe divenire una sorta di idolo. Invece anche qui non esita a dire la sua, a costo di apparire retrogrado e inopportuno. Ricevendo il premio Nobel, parla di una legge naturale che è iscritta da Dio nel cuore di ogni uomo, e che si oppone ad ogni scetticismo e ad ogni relativismo.
La vera realtà non è quella terrena, spiega lo scrittore, ma quella celeste, così che i principi morali fanno parte della creazione divina allo stesso titolo degli elementi naturali e degli esseri umani. In generale, ovunque può, Solgenicyn critica il materialismo imperante, sostenendo che esso è un vizio che accomuna il mondo comunista e quello occidentale; paragona la “tribù istruita” degli intellettuali russi, colpevoli di aver fatto precipitare il paese nella rivoluzione, alla “tribù istruita” che pontifica sui media americani ed europei; afferma che “la stampa è diventata la più grande potenza in seno ai paesi occidentali”, ma “andare al nocciolo dei problemi le è controindicato… L’Occidente, che non ha censura, opera tuttavia una selezione puntigliosa separando le idee alla moda da quelle che non lo sono…”.
IL RITORNO IN RUSSIA E L’INCONTRO CON PUTIN – Nel 1994 Solgenicyn può tornare in Russia. Il comunismo è caduto, ma la “libertà” degli anni di Eltsin non è quella che avrebbe desiderato: oligarchi, licenza, il popolo trattato come “materiale per le campagne elettorali”… C’è ancora molto da fare: Solgenicyn potrebbe anche assurgere ad importantissime cariche politiche, vista la considerazione di cui gode, ma sceglie di continuare a lottare a modo suo, da scrittore.
Nel 1998, pochi anni dopo la presidenza Eltsin, il paese viveva una crisi umana e finanziaria devastante ed era sull’orlo del default.
E’ ora che lo scrittore conosce Putin. Ljudmila Saraskina, in una monumentale biografia di 1432 pagine dal titolo “Solženicyn”, racconta i “frequenti, stretti, ma non sempre pubblicizzati” incontri tra Solženicyn – il grande vecchio, l’eroe del popolo russo nemico del comunismo, ma deluso dai nuovi politici “democratici” – e il giovane uomo politico che sembra destinato, come tanti altri, ad essere una meteora, con molti nemici, in un paese in decomposizione.
Il primo incontro avviene il 20 settembre 2000 a Troice-Lykovo: sono i coniugi Putin a recarsi in visita a casa dello scrittore. Il giorno seguente Solženicyn, nel programma Vesti, dichiara di aver conosciuto un uomo dall’intelligenza vivace e pronta, “preoccupato del destino della Russia e non del potere personale“. L’ex agente del KGB in visita ad un’ex vittima del KGB! La notizia occupa per molto tempo i giornali russi, che dovranno tornare sovente sul tema, visto che i due continueranno a vedersi per anni, talvolta pubblicamente, talvolta in modo riservato, per sfuggire alle polemiche degli avversari.
Cosa insegna Solženicyn al suo giovane ammiratore? Essenzialmente tre cose: che occorre frenare la catastrofe demografica, che fa perdere alla Russia circa un milione di persone l’anno e che è figlia del nichilismo comunista ma anche di quello occidentale; che bisogna rivedere le privatizzazioni selvagge realizzate nell’epoca di Eltsin, e gestite a vantaggio di pochi, ai danni del popolo; che è necessario impedire che il passaggio dal comunismo alla democrazia liberale segni la morte definitiva dell’anima religiosa russa, traghettando il paese dal materialismo comunista al consumismo materialista occidentale.
Da dissidente anticomunista, Solženicyn ha imparato cosa significhi la dittatura vera e propria, con le sue blandizie (la neolingua menzognera, che trasforma l’essenza delle cose) e la sua incredibile durezza (i gulag, la pena di morte…).
Nei suoi anni negli Usa, invece, si è convinto dell’esistenza di un’altra forma di dittatura, più morbida ma egualmente mortale, quella del pensiero unico imposto dai maître à penser delle televisioni e dei giornali “liberi”. Sono loro, in un paese che appare allo scrittore russo “disgregato” moralmente, spiritualmente “insano”, a decidere cosa la gente debba leggere e cosa debba pensare, generando un conformismo asfissiante e molto simile a quello imposto in Unione Sovietica dal comunismo.
Putin ascolta ciò che Solženicyn gli dice, sul suo paese e sugli Usa, e farà ciò che gli è stato suggerito: limitando il ricorso all’aborto e sostenendo la famiglia; emarginando gli oligarchi e restituendo così allo Stato e ai russi i loro beni nazionali; riagganciando il suo paese alle tradizioni religiose combattute dal comunismo ed anche, in altro modo, in Occidente.
Quanto alla politica estera, per capire la posizione di Putin di oggi, occorre forse ancora una volta ricordare cosa pensava il suo venerato maestro, allorché, nella primavera del 1999, commentando i bombardamenti a tappeto dell’amministrazione Bill Clinton sulla Serbia, dichiarava: “Non bisogna illudersi che l’America e la Nato abbiano come scopo la difesa dei kossovari… La cosa più spaventosa è che la Nato ci ha introdotti in una nuova epoca… chi è più forte, schiacci“.
Nel 2008, anno della sua morte, Solženicyn avrebbe dichiarato: “Impiantare la democrazia in tutto il pianeta. Impiantare! E infatti hanno cominciato a impiantarla. Prima in Bosnia. Con un bagno di sangue… Un grande successo, in Iraq! Un grande successo della democrazia. Adesso a chi toccherà? Chi sarà il prossimo? Forse l’Iran? … Non vale un soldo la democrazia che è arrivata con le baionette; da dieci anni stanno sviluppando il loro piano spudorato, la cui sostanza consiste nell’imporre in tutto il mondo la cosidetta democrazia all’americana“.
Ecco da dove proviene, almeno in parte, l’ avversione di Putin alla guerra in Libia (paese che, a sentire qualcuno, andava “liberato” dal tiranno), la sua politica in Siria, e l’ avversione per Hillary Clinton, la donna che ha votato sì a tutte le guerre per “impiantare” la democrazia.
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